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(05/04/2014) - Idee e consigli per migliorare le performance delle cantine del Paese sui fondamentali mercati stranieri.

Ecco cosa chiedono importatori e distributori del mondo ai produttori di vino italiano: studio dei mercati, maggiore conoscenza delle lingue, più flessibilità a lavorare su diversi fusi orari

Idee e consigli per migliorare le performance delle cantine del Paese sui fondamentali mercati stranieri.

Per l’Italia del vino l’export, ormai, non è più solo un’opportunità di crescita, ma una strada obbligata da percorrere per rimanere uno dei settori più floridi dell’economia nazionale.

I dati parlano chiaro: all’estero finisce quasi la metà della produzione italiana (nel 2013 le spedizioni sono state di 20,3 milioni di ettolitri, dato Ismea), e grazie all’export, che nel 2013 ha superato il record storico di 5 miliardi di euro, il sistema-vino realizza la metà dei 10-11 miliardi di euro di fatturato delle cantine del Belpaese.

E se in alcuni mercati come gli Usa, la Germania, il Canada o l’Inghilterra l’Italia è nelle prime posizioni in volumi e valori, in altri come la Cina, la Russia o il Sudamerica, c’è da recuperare terreno su francesi, spagnoli, cileni, australiani e così via.

Ma al di là del solito “fare sistema”, cosa può fare, ogni produttore, in concreto, per migliorare le proprie performance?

Prima di tutto, studiare meglio i mercati prima di aggredirli, essere più presente e non solo fisicamente, più flessibilità a lavorare su più fusi orari, maggiore conoscenza delle lingue, più strategia di medio termine: è questo, secondo un’indagine di Vinitaly - la rassegna internazionale di riferimento del settore al via domani a Verona, (www.vinitaly.com) - e WineNews quello che chiedono importatori ed distributori di vino italiano ai produttori, per aiutarli nell’obiettivo comune di avere successo nei mercati del mondo.

Dalle indicazioni di molti importatori e distributori dai più importanti mercati per il vino italiano, dagli Usa alla Germania, dal Regno Unito al Canada, dal Nord Europa al Sud America, dalla Russia alla Cina, passando per l’Est Europa e il Giappone, emerge quello che da un lato è un consiglio, dall’altro una vera e propria esigenza, che i professionisti del commercio enoico chiedono ai produttori: un maggior studio e una maggiore preparazione sul mercato che si vuole andare ad aggredire, dalle leggi all’approccio culturale non solo al wine & food, ma anche al business.
Perché anche osservare le regole del galateo locale in un pranzo o in una cena d’affari può essere fondamentale per far scattare la scintilla tra importatore e produttore, per esempio. E se può sembrare un’ovvietà, in molti testimoniano che in realtà non è così.

Altro aspetto fondamentale, che molti vorrebbero vedere migliorare da parte dei produttori italiani, è quello di una maggiore presenza sui mercati. E non soltanto quella fisica, per molti, ormai, condizione imprescindibile per vendere, ma anche quella fattiva, che si traduce, per esempio in una maggiore flessibilità d’orario, vista la questione de fusi orari, perché a volte una risposta tempestiva, via telefono o via mail, può segnare il successo o il fallimento di un ordine importante, o sbloccare in tempi più rapidi e utili per tutti una necessità burocratica sorta all’ultimo momento.

Altro tasto dolente, in molti casi, quello della lingua: molti produttori, spiegano importatori e distributori, spesso non sanno nemmeno l’inglese, e questo rende complicato non tanto il rapporto tra le parti in causa, quanto l’aspetto comunicativo del vino, perché in situazioni come degustazioni, road show, presentazioni, il pubblico vuole che sia il produttore stesso a spiegare i propri vini, e non l’importatore o un traduttore.

Fondamentale, poi, per chi si approccia per la prima volta su un mercato nuovo, farlo con in mente una strategia di medio termine già il più possibile chiara, soprattutto in termini di posizionamento di prezzo e di brand: piuttosto che arrivare con un portfolio enorme di vini di tutte le fasce di prezzo, meglio puntare ad un target ben definito con poche etichette. In questo modo si possono concentrare meglio gli sforzi e la collaborazione tra produttore ed importatore, e non si rischia di creare confusione nei consumatori.

Altra indicazione utile, per i produttori, quella di capire bene quale tipo di partner cercare sui diversi mercati: per una piccola cantina che produce poche bottiglie, magari di un vino molto legato ad un territorio particolare poco conosciuto, può essere meglio cercare di entrare nelle grazie di un piccolo importatore che investe su curiosità e “chicche” enologiche, che finire nell’enorme portfolio di una grande compagnia, con il rischio di rimanere, per questa, più un accessorio che una realtà sui cui puntare.

Alcuni, poi, suggeriscono ai produttori di pensare a vini ideati appositamente per un certo tipo di mercato, per esempio come accade nella spumantistica, anche con gli Champagne, dove magari a seconda dei gusti prevalenti del paese-obiettivo si utilizzano liqueur de tirage diversi per andare incontro al favore dei consumatori. Senza snaturare, chiaramente, il prodotto, ma semplicemente rendendolo il quanto più possibile comprensibile ed appetibile soprattutto su mercati nuovi non solo per un’etichetta, ma per il vino più in generale.

Piccoli consigli e suggerimenti pratici, che valgono soprattutto per le aziende più giovani, per quelle meno strutturate (chi ha i mezzi e i volumi, in molti casi, ha puntato su resident area manager, veri e propri dipendenti dell’azienda che vivono tutto l’anno nei mercati di riferimento), o semplicemente per quelle realtà che iniziano o hanno iniziato a guardare all’export da poco. E che mirano ad un obiettivo che unisca produttori, importatori e distributori: non solo vendere qualche bottiglia in più, sporadicamente, sui mercati del mondo, ma diventare una presenza solida e costante negli scaffali e nei locali di tutto il pianeta.


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